Nella vita si sbaglia, lo facciamo tutti, in ogni ruolo e situazione, la chiave per migliorarsi è comprendere l’errore, acquisire la lezione e andare avanti perché purtroppo indietro non si può tornare. L’ha detto anche Mancini: “Dobbiamo scavallare il mese di dicembre”. L’ha fatto con l’aria mesta, sapendo che la ferita del secondo Mondiale consecutivo con l’Italia a casa spegne la gioia per la vittoria del girone di Nations League e la seconda qualificazione consecutiva alla Final Four. A metà giugno ad Amsterdam ci saremo noi e non la Francia, la Germania, l’Inghilterra che addirittura è retrocessa in Lega B.
Un premio di consolazione che non riesce neanche a rendere meno amaro lo scenario dell’inverno trascorso sul divano a vedere gli altri che si giocano il Mondiale, con i campionati fermi 52 giorni.
Indietro non si può tornare, “adda passà a’nuttata”, avrebbe detto Edoardo De Filippo anche se il pensiero del Mondiale a ridosso del Natale ci porterebbe di più dentro “Natale in casa Cupiello”.
Mancini, però, ha dimostrato di aver imparato la lezione. Ricordo ancora i populisti che sull’onda emotiva del Mondiale mancato invocavano le dimissioni, la richiesta giusta per ogni fallimento come se fosse scontato che poi rappresenterebbero un miglioramento.
Mancini per l’Italia è una speranza a cui aggrapparsi, altro che dimissioni.
Lo dicono i numeri: per risultati è il miglior ct della storia azzurra con 34 vittorie, 15 pareggi e sole sei sconfitte. Ha vinto l’Europeo al termine di un percorso in cui ha ridato dignità alla Nazionale dopo il fallimento di Ventura e, dopo il disastro Mondiale di cui ovviamente ha un pezzo importante di responsabilità, ha ricostruito un’identità tattica alla sua Italia, gli ha ridato un’anima.
Addio all’Italia del palleggio, del doppio play, dello sviluppo di gioco attraverso le catene laterali, quella che si era ispirata al lascito del Napoli di Sarri, dentro un’altra più stile Gasperini. 3-5-2, pressione alta, squadra aggressiva, attacco in ampiezza con i tagli dei quinti come dimostra il gol di Dimarco all’Ungheria.
L’Italia è tornata ad essere squadra, è compatta, sa soffrire ed esprime una proposta di gioco nelle difficoltà delle tantissime assenze che ha subito.
Non è scontato per un movimento in declino da anni, con un campionato che ha il 61% di stranieri, dove Immobile è l’unico italiano tra i centravanti titolari delle otto sorelle. Abbiamo esportato Scamacca, Gnonto e Lucca ma c’è bisogno di tempo affinché possano affermarsi. Scamacca col West Ham ha segnato solo in Conference League, Gnonto al Leeds non ha giocato neanche un minuto in Premier e Lucca all’Ajax gioca nella squadra B.
Non sono ancora i nuovi Donnarumma, Jorginho e Verratti che hanno conquistato spazio in top team europei.
Mancini, complice anche il calendario folle che ha costretto l’Italia a giocarsi il Mondiale tre mesi dopo la vittoria dell’Europeo, ha pensato che con il gruppo di Wembley si potesse andare al Mondiale in scioltezza. La rivoluzione era già una necessità un anno fa, Mancini non ha avuto la forza di coglierla e si è scontrato su una problematica che tuttora persiste: la difficoltà a far gol.
Del resto la mancata qualificazione al Mondiale non è frutto di grandi disfatte ma dei pareggi contro la Bulgaria dopo una partita dominata, contro la Svizzera con due rigori sbagliati e dell’incapacità di far gol ad Irlanda del Nord e Macedonia del Nord.
Raspadori, rinfrancato dall’avventura napoletana, porta una ventata di freschezza ma non può bastare da solo. Il punto di partenza indispensabile è che Mancini è tornato a fare l’allenatore, per qualche mese si è illuso di poter essere un normale selezionatore. L’Italia ha bisogno di una guida che detti la linea, imponga il rispetto delle regole, faccia sentire il senso d’appartenenza e soprattutto abbia sempre una proposta di calcio credibile concentrandosi anche sul miglioramento dei singoli.
Mancini, che ci ha portato sul tetto d’Europa, è tornato a farlo, tracciando di nuovo una via per andare oltre la mediocrità. Prima, però, “Adda passà ‘a nuttata”.
Ciro Troise